Ai Coetus fidelium del Populus Summorum Pontificum d’Italia e a tutti i nostri Amici

Senza nome 2Cari Amici,

da alcune settimane, dal fatidico 16 luglio, il nostro mondo – il mondo del Populus Summorum Pontificum, dei numerosi Coetus che coltivano con amore, dedizione e spirito di sacrificio la celebrazione della liturgia tradizionale, a vantaggio di tutta la Chiesa – è in comprensibile fibrillazione, attraversato da un’agitazione degli animi e delle menti che non accenna a calmarsi.

In effetti, siamo quotidianamente bersagliati da segnali obiettivamente contraddittori, e da notizie che ora ci aprono alla speranza, ora ci piombano nello sconforto. Grazie al Cielo, non mancano, soprattutto a livello internazionale, indizi positivi: pensiamo ai numerosi Vescovi americani che hanno prontamente confermato la celebrazione della Messa tradizionale anche nelle parrocchie; all’atteggiamento simpatetico di una parte consistente della Chiesa francese; a Vescovi e Cardinali coraggiosi che hanno detto parole forti e chiare a difesa dell’intangibilità della liturgia tradizionale. Ma vi sono anche segnali contrari, e il panorama italiano, che è quello che ci interessa più direttamente, appare ancora alquanto incerto, non essendo facile decifrare – al di là di un generico timore, o dell’ugualmente generica fiducia in questo o quel presule – qual sia o potrà essere il comportamento concreto dei nostri Vescovi.

Tutto questo coinvolge direttamente il CNSP, e la finalità che esso persegue prioritariamente: offrire un’occasione di confronto, di conoscenza, di collaborazione e di “unione delle forze” a tutti i Coetus italiani che avvertano l’esigenza di allargare e consolidare quella rete di fraterne sinergie e di reciproco supporto che, specie in questi tempi difficili, appare a molti di noi come necessaria.

A tale scopo, abbiamo intenzione di avviare alcune iniziative concrete. In particolare, riteniamo che la prima e più urgente esigenza da soddisfare sia, appunto, quella della reciproca presa di contatto: favorire, offrendo il necessario supporto logistico, l’incontro fra i rappresentanti dei coetus, per uno scambio di informazioni, di esperienze, di consigli, di indicazioni operative e – perché no? – per incoraggiarci a vicenda.

Un primo ciclo di incontri potrebbe riunire i Coetus del Nord Italia. Ne stiamo definendo i dettagli organizzativi, che comunicheremo con congruo anticipo (almeno due settimane prima di ogni riunione): stiamo cercando sedi che possano essere raggiunte senza eccessivo disagio, e contiamo di tenerli a partire dal 15 settembre.  Saremo davvero felici se vorrete scriverci – all’indirizzo cnsp2007@gmail.com – per dirci la vostra opinione in merito,  per segnalare ciò di cui desideriate si discuta, e per darci tutti i suggerimenti che vi parranno opportuni in vista della buona riuscita dell’iniziativa.

Non solo: nelle prossime settimane cercheremo di raggiungere individualmente e direttamente i Coetus con cui siamo in contatto, per passare alla fase realizzativa del progetto: vi saremo dunque sinceramente grati se vorrete rendervi disponibili agli amici che vi contatteranno, ma anche se vorrete farvi parte attiva per contattarci direttamente e per aiutarci concretamente a realizzare il programma.

Affidiamoci tutti a Maria Santissima e mettiamo ai Suoi piedi ogni nostra iniziativa:

Memorare, o piissima Virgo Maria,

non esse auditum a sæculo,

quemquam ad tua currentem præsidia,

tua implorantem auxilia,

tua petentem suffragia, esse derelictum.

Ego tali animatus confidentia,

ad te, Virgo Virginum, Mater, curro,

ad te venio, coram te gemens peccator assisto.

Noli, Mater Verbi, verba mea despicere;

sed audi propitia et exaudi.

 

 

 

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Dichiarazione di S. E. Rev.ma il Card. Raymond Leo Burke in merito al Motu Proprio “Traditionis Custodes”

Lo scorso 22 luglio S. E. Rev.ma il Card. Raymond Leo Burke ha divulgato la seguente Dichiarazione in merito al Motu Proprio “Traditionis Custodes”, che proponiamo nella traduzione di Sabino Paciolla, rivista ed approvata da Sua Eminenza. Qui la versione originale in lingua inglese.

Senza nome

Dichiarazione

In merito al Motu Proprio “Traditionis Custodes”

Molti fedeli – laici, ordinati e consacrati – mi hanno espresso la profonda angoscia che il Motu Proprio “Traditionis Custodes” ha portato loro. Coloro che sono attaccati all’Usus Antiquior (Uso più antico) [UA], quello che Papa Benedetto XVI ha chiamato la Forma Straordinaria, del Rito Romano sono profondamente demoralizzati dalla severità della disciplina che il Motu Proprio impone e offesi dal linguaggio che utilizza nel descrivere loro, i loro atteggiamenti e la loro condotta. Come membro dei fedeli, che ha anche un intenso legame con l’UA, condivido pienamente i loro sentimenti di profondo dolore.

Come Vescovo della Chiesa e come Cardinale, in comunione con il Romano Pontefice e con la particolare responsabilità di assisterlo nella sua cura pastorale e nel governo della Chiesa universale, offro le seguenti osservazioni:

  1. In via preliminare, ci si deve chiedere perché non sia stato ancora pubblicato il testo latino o ufficiale del Motu Proprio. Per quanto ne sappia, la Santa Sede ha promulgato il testo nelle versioni italiana e inglese e, in seguito, nelle traduzioni tedesca e spagnola. Poiché la versione inglese è chiamata traduzione, si deve presumere che il testo originale sia in italiano. Se è così, ci sono traduzioni di testi significativi nella versione inglese che non sono coerenti con la versione italiana. Nell’articolo 1, l’importante aggettivo italiano “unica” è tradotto in inglese come “unique”, invece di “only”. Nell’articolo 4, l’importante verbo italiano “devono” è tradotto in inglese come “should”, invece di “must”.
  2. Prima di tutto, è importante stabilire, in questa e nelle due osservazioni seguenti (nn. 3 e 4), l’essenza di ciò che il Motu Proprio contiene. È evidente dalla severità del documento che Papa Francesco ha emesso il Motu Proprio per affrontare quello che egli percepisce come un grave male che minaccia l’unità della Chiesa, cioè l’UA. Secondo il Santo Padre, coloro che adorano secondo questo uso fanno una scelta che rifiuta “la Chiesa e le sue istituzioni in nome di quella che viene chiamata la ‘vera Chiesa’”, una scelta che “contraddice la comunione e alimenta la tendenza divisiva … contro la quale l’apostolo Paolo ha reagito con tanto vigore”.
  3. Chiaramente, Papa Francesco considera il male così grande che ha agito immediatamente, non informando preventivamente i Vescovi e non prevedendo nemmeno la consueta vacatio legis, un periodo di tempo tra la promulgazione di una legge e la sua entrata in vigore. La vacatio legis fornisce ai fedeli e soprattutto ai Vescovi il tempo di studiare la nuova norma riguardante il culto di Dio, l’aspetto più importante della loro vita nella Chiesa, in vista della sua attuazione. La norma, infatti, contiene molti elementi che richiedono uno studio per la sua applicazione.
  4. Inoltre, la norma pone delle restrizioni all’UA, che segnalano la sua eliminazione definitiva, per esempio, il divieto di utilizzare una chiesa parrocchiale per il culto secondo l’UA e la fissazione di determinati giorni per tale culto. Nella sua lettera ai vescovi del mondo, Papa Francesco indica due principi che devono guidare i vescovi nell’attuazione del Motu Proprio. Il primo principio è “provvedere al bene di coloro che sono radicati nella precedente forma di celebrazione e hanno bisogno di tornare a tempo debito al Rito Romano promulgato dai Santi Paolo VI e Giovanni Paolo II”. Il secondo principio è “interrompere l’erezione di nuove parrocchie personali legate più al desiderio e alla volontà dei singoli sacerdoti che al reale bisogno del ‘santo popolo di Dio’”.
  5. Apparentemente, la legislazione è diretta alla correzione di un’aberrazione principalmente attribuibile al “desiderio e alla volontà” di alcuni sacerdoti. A questo proposito, devo osservare, soprattutto alla luce del mio servizio come Vescovo diocesano, che non sono stati i sacerdoti che, per i loro desideri, hanno spinto i fedeli a richiedere la Forma Straordinaria. Anzi, sarò sempre profondamente grato ai tanti sacerdoti che, nonostante i loro già pesanti impegni, hanno generosamente servito i fedeli che legittimamente richiedevano l’UA. I due principi non possono fare a meno di comunicare ai fedeli devoti che hanno un profondo apprezzamento e attaccamento all’incontro con Cristo attraverso la Forma Straordinaria del Rito Romano che soffrono di un’aberrazione che può essere tollerata per un certo tempo ma che alla fine deve essere sradicata.
  6. Da dove viene l’azione severa e rivoluzionaria del Santo Padre? Il Motu Proprio e la Lettera indicano due fonti: in primo luogo, “i desideri espressi dall’episcopato” attraverso “una dettagliata consultazione dei vescovi” condotta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2020, e, in secondo luogo, “il parere della Congregazione per la Dottrina della Fede”. Per quanto riguarda le risposte alla “consultazione dettagliata” o “questionario” inviato ai Vescovi, Papa Francesco scrive ai Vescovi: “Le risposte rivelano una situazione che mi preoccupa e mi rattrista, e mi persuade della necessità di intervenire”.
  7. Per quanto riguarda le fonti, si deve supporre che la situazione che preoccupa e rattrista il Romano Pontefice esista in generale nella Chiesa o solo in alcuni luoghi? Data l’importanza attribuita alla “consultazione dettagliata” o “questionario”, e la gravità della materia trattata, sembrerebbe essenziale che i risultati della consultazione siano resi pubblici, insieme all’indicazione del suo carattere scientifico. Allo stesso modo, se la Congregazione per la Dottrina della Fede fosse stata del parere che una tale misura rivoluzionaria dovesse essere presa, avrebbe verosimilmente preparato un’Istruzione o un documento simile per affrontarla.
  8. La Congregazione gode della competenza e della lunga esperienza di alcuni ufficiali – prima in servizio nella Pontificia Commissione «Ecclesia Dei» e poi nella Quarta Sezione della Congregazione – che sono stati incaricati di trattare questioni riguardanti l’UA. Ci si deve chiedere se il “parere della Congregazione per la Dottrina della Fede” rifletta la consultazione di coloro che hanno la più grande conoscenza dei fedeli devoti all’UA?
  9. Per quanto riguarda il percepito male grave costituito dall’UA, ho una vasta esperienza di molti anni e in molti luoghi diversi con i fedeli che adorano regolarmente Dio secondo l’UA. In tutta onestà, devo dire che questi fedeli, in nessun modo, rifiutano “la Chiesa e le sue istituzioni in nome di quella che viene chiamata la ‘vera Chiesa’”. Né li ho trovati fuori dalla comunione con la Chiesa o divisivi all’interno della Chiesa. Al contrario, amano il Romano Pontefice, i loro Vescovi e sacerdoti, e, quando altri hanno fatto la scelta dello scisma, hanno voluto sempre rimanere in piena comunione con la Chiesa, fedeli al Romano Pontefice, spesso a costo di grandi sofferenze. Essi, in nessun modo, si ascrivono a un’ideologia scismatica o sedevacantista.
  10. La Lettera che accompagna il Motu Proprio afferma che la UA è stata permessa da Papa San Giovanni Paolo II e poi regolata da Papa Benedetto XVI con “il desiderio di favorire la guarigione dello scisma con il movimento di mons. Lefebvre”. Il movimento in questione è la Società di San Pio X. Mentre entrambi i Romani Pontefici desideravano la guarigione dello scisma in questione, come dovrebbero fare tutti i buoni cattolici, essi desideravano anche mantenere in continuità l’UA per coloro che rimanevano nella piena comunione della Chiesa e non diventavano scismatici. Papa San Giovanni Paolo II mostrò carità pastorale, in vari modi importanti, verso i fedeli cattolici legati all’UA, per esempio, concedendo l’indulto per l’UA ma anche istituendo la Fraternità Sacerdotale di San Pietro, una società di vita apostolica per i sacerdoti legati all’UA. Nel libro Ultime conversazioni(Milano, Garzanti, 2016), Papa Benedetto XVI ha risposto all’affermazione: “La riabilitazione della Messa tridentina viene spesso interpretata come una concessione alla Società San Pio X”, con queste parole chiare e forti: “Questo è assolutamente falso! Per me era importante che la Chiesa preservasse la continuità interna con il suo passato. Che ciò che prima era sacro non divenisse da un momento all’altro una cosa sbagliata” (pp. 189-190). Infatti, molti di coloro che attualmente desiderano praticare il culto secondo l’UA non hanno alcuna esperienza e forse nessuna conoscenza della storia e della situazione attuale della Società Sacerdotale di San Pio X. Sono semplicemente attratti dalla santità dell’UA.
  11. Sì, ci sono individui e persino alcuni gruppi che sposano posizioni radicali, anche come avviene in altri settori della vita della Chiesa, ma essi non sono, in nessun modo, caratteristici del più grande e sempre crescente numero di fedeli che desiderano adorare Dio secondo l’UA. La Sacra Liturgia non è una questione di cosiddetta “politica della Chiesa” ma l’incontro più pieno e perfetto con Cristo per noi in questo mondo. I fedeli in questione, tra i quali ci sono numerosi giovani adulti e giovani coppie sposate con figli, incontrano Cristo, attraverso l’UA, che li attira sempre più vicini a sé attraverso la riforma della loro vita e la cooperazione con la grazia divina che scorre dal Suo glorioso Cuore trafitto nei loro cuori. Non hanno bisogno di esprimere un giudizio su coloro che adorano Dio secondo l’Usus Recentior (l’Uso più recente), quello che Papa Benedetto XVI ha chiamato la Forma Ordinaria del Rito Romano) [UR], promulgato per la prima volta da Papa San Paolo VI. Come mi ha fatto notare un sacerdote, membro di un istituto di vita consacrata, che serve questi fedeli: Mi confesso regolarmente da un sacerdote, secondo l’UR, e partecipo, in occasioni speciali, alla Santa Messa secondo l’UR. Ha concluso: Perché qualcuno dovrebbe accusarmi di non accettarne la validità?
  12. Se ci sono situazioni di un atteggiamento o di una pratica contraria alla sana dottrina e disciplina della Chiesa, la giustizia esige che siano affrontate individualmente dai pastori della Chiesa, dal Romano Pontefice e dai Vescovi in comunione con lui. La giustizia è la condizione minima e insostituibile della carità. La carità pastorale non può essere servita, se non si osservano le esigenze della giustizia.
  13. Uno spirito scismatico o uno scisma vero e proprio sono sempre gravemente malvagi, ma non c’è nulla nell’UA che favorisca lo scisma. Per quelli che hanno conosciuto l’UA in passato, come me, si tratta di un atto di culto segnato da una bontà, verità e bellezza plurisecolari. Ho conosciuto la sua attrattiva fin dalla mia infanzia e mi sono anzi molto affezionato ad essa. Avendo avuto il privilegio di assistere il sacerdote come assistente alla Messa da quando avevo dieci anni, posso testimoniare che l’UA è stato una grande ispirazione della mia vocazione sacerdotale. Per coloro che sono venuti all’UA per la prima volta, la sua ricca bellezza, specialmente il modo in cui manifesta l’azione di Cristo che rinnova sacramentalmente il Suo sacrificio sul Calvario attraverso il sacerdote che agisce nella Sua persona, li ha avvicinati a Cristo. Conosco molti fedeli per i quali l’esperienza del Culto Divino secondo l’UA ha fortemente ispirato la loro conversione alla Fede o la loro ricerca della Piena Comunione con la Chiesa Cattolica. Inoltre, numerosi sacerdoti che sono tornati alla celebrazione dell’UA o che l’hanno imparata per la prima volta mi hanno detto quanto profondamente abbia arricchito la loro spiritualità sacerdotale. Per non parlare dei santi di tutti i secoli cristiani per i quali l’UA ha alimentato una pratica eroica delle virtù. Alcuni hanno dato la vita per difendere l’offerta di questa stessa forma di culto divino.
  14. Per me e per altri che hanno ricevuto così tante grazie potenti attraverso la partecipazione alla Sacra Liturgia, secondo l’UA, è inconcepibile che essa possa ora essere caratterizzata come qualcosa di dannoso all’unità della Chiesa e alla sua stessa vita. A questo proposito, è difficile comprendere il significato dell’articolo 1 del Motu Proprio: “I libri liturgici promulgati da San Paolo VI e San Giovanni Paolo II, in conformità con i decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica (“unica”, nella versione italiana che sembra essere il testo originale) espressione della lex orandi del Rito Romano.” La UA è una forma viva del Rito Romano e non ha mai cessato di esserlo. Fin dalla promulgazione del Messale di Papa Paolo VI, riconoscendo la grande differenza tra l’UR e l’UA, la continuazione della celebrazione dei Sacramenti, secondo l’UA, fu permessa a certi conventi e monasteri e anche a certi individui e gruppi. Papa Benedetto XVI, nella sua Lettera ai Vescovi del Mondo, che accompagna il Motu Proprio “Summorum Pontificum“, ha chiarito che il Messale Romano in uso prima del Messale di Papa Paolo VI, “non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, fu sempre permesso”.
  15. Ma il Romano Pontefice può abrogare giuridicamente l’UA? La pienezza di potere (plenitudo potestatis) del Romano Pontefice è il potere necessario per difendere e promuovere la dottrina e la disciplina della Chiesa. Non è un “potere assoluto” che includerebbe il potere di cambiare la dottrina o di sradicare una disciplina liturgica che è viva nella Chiesa dai tempi di Papa Gregorio Magno e anche prima. L’interpretazione corretta dell’articolo 1 non può essere la negazione che l’UA sia un’espressione sempre vitale della “lex orandi del Rito Romano”. Nostro Signore che ha fatto il meraviglioso dono dell’UA non permetterà che venga sradicato dalla vita della Chiesa.
  16. Bisogna ricordare che, da un punto di vista teologico, ogni valida celebrazione di un sacramento, per il fatto stesso che è un sacramento, è anche, al di là di ogni legislazione ecclesiastica, un atto di culto e, quindi, anche una professione di fede. In questo senso, non è possibile escludere il Messale Romano, secondo l’UA, come espressione valida della lex orandi e, quindi, della lex credendi della Chiesa. Si tratta di una realtà oggettiva della grazia divina che non può essere modificata da un semplice atto di volontà anche della massima autorità ecclesiastica.
  17. Papa Francesco afferma nella sua lettera ai Vescovi: “Rispondendo alle vostre richieste, prendo la ferma decisione di abrogare tutte le norme, istruzioni, permessi e consuetudini che precedono il presente Motu proprio, e dichiaro che i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, costituiscono l’unica [sola] espressione della lex orandi del Rito Romano.” L’abrogazione totale in questione, in giustizia, richiede che si studi ogni singola norma, istruzione, permesso e consuetudine, per verificare che essa “contraddica la comunione e nutra la tendenza divisiva … contro la quale l’Apostolo Paolo reagì così vigorosamente.”
  18. Qui, è necessario osservare che la riforma della Sacra Liturgia operata da Papa San Pio V, in accordo con le indicazioni del Concilio di Trento, fu ben diversa da ciò che avvenne dopo il Concilio Vaticano II. Papa San Pio V mise essenzialmente in ordine la forma del Rito Romano come esisteva già da secoli. Allo stesso modo, alcuni ordinamenti del Rito Romano sono stati fatti nei secoli successivi da parte del Romano Pontefice, ma la forma del Rito è rimasta la stessa. Ciò che è accaduto dopo il Concilio Vaticano II ha costituito un cambiamento radicale nella forma del Rito Romano, con l’eliminazione di molte delle preghiere, dei gesti rituali significativi, per esempio le molte genuflessioni, e il frequente bacio dell’altare, e altri elementi che sono ricchi dell’espressione della realtà trascendente – l’unione del cielo con la terra – che è la Sacra Liturgia. Già Papa Paolo VI lamentava la situazione in modo particolarmente drammatico con l’omelia che tenne nella festa dei Santi Pietro e Paolo nel 1972. Papa San Giovanni Paolo II ha lavorato per tutto il suo pontificato e, in particolare, durante i suoi ultimi anni, per affrontare i gravi abusi liturgici. Entrambi i Romani Pontefici, e anche Papa Benedetto XVI, si sforzarono di conformare la riforma liturgica all’effettivo insegnamento del Concilio Vaticano II, poiché i fautori e gli agenti degli abusi invocavano lo “spirito del Concilio Vaticano II” per giustificarsi.
  19. L’articolo 6 del Motu Proprio trasferisce la competenza degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica dedicati all’UA alla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. L’osservanza dell’UA appartiene al cuore stesso del carisma di questi istituti e società. Mentre la Congregazione è competente a rispondere a questioni riguardanti il diritto canonico per tali istituti e società, non è competente ad alterare il loro carisma e le loro costituzioni, al fine di affrettare l’apparentemente desiderata eliminazione dell’UA nella Chiesa.

Ci sono molte altre osservazioni da fare, ma queste mi sembrano le più importanti. Spero che possano essere utili a tutti i fedeli e, in particolare, ai fedeli che offrono il culto secondo l’UA, nel rispondere al Motu Proprio “Traditionis Custodes” e alla Lettera ai Vescovi che lo accompagna. La severità di questi documenti genera naturalmente una profonda angoscia e persino un senso di confusione e di abbandono. Prego che i fedeli non cedano allo scoraggiamento ma che, con l’aiuto della grazia divina, perseverino nel loro amore per la Chiesa e per i suoi pastori, e nel loro amore per la Sacra Liturgia.

A questo proposito, esorto i fedeli a pregare con fervore per Papa Francesco, i Vescovi e i sacerdoti. Allo stesso tempo, in accordo con il can. 212, §3, “[i]n rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità delle persone”. Infine, nella gratitudine a Nostro Signore per la Sacra Liturgia, il più grande dono di sé a noi nella Chiesa, possano continuare a salvaguardare e coltivare l’antico e sempre nuovo Uso più antico o Forma straordinaria del Rito romano.

Raymond Leo Cardinale BURKE

Roma, 22 luglio 2021

Festa di Santa Maria Maddalena, Penitente

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Caro Papa Francesco, cari Vescovi…

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“Traditionis custodes”: note a prima lettura

8EE3E27F-61A8-4CF1-AC53-B62D3EA3C833Guido Ferro Canale, la cui competenza canonistica ed il cui acume sono ben noti ed apprezzati, ha rimesso anche a noi, come ad altri siti della blogosfera tradizionale, un ricco testo di primo commento del Motu proprio Traditionis custodes. Lo proponiamo volentieri, sia per il suo valore assoluto, sia come utile contributo alla riflessione circa gli scenari futuri e le azioni da intraprendere a difesa dei diritti della Tradizione.

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“Traditionis custodes”: note a prima lettura

1. Premessa; 1.1 Diritto transitorio: si può celebrare fino a nuovo ordine; 1.2 La logica del sospetto e le sue conseguenze; 1.3 Campi di rieducazione e Messa ad esaurimento?; 2. La condizione giuridica della Messa tridentina; 3. L’autorità competente; 4. La condizione dei Sacerdoti; 5. I coetus fidelium; 6. Conclusioni.

1. Premessa
Un’analisi canonica del m.p. “Traditionis custodes”, formato e pubblicato il 16 luglio 2021 da S. Giovanni in Laterano, caput et mater omnium ecclesiarum Urbis et orbis, (1) in questo momento non può che risentire dell’impatto immediato del testo e, soprattutto, della mancanza della versione latina; sarà quindi necessario considerar come originale la stesura italiana, perché così indica il Bollettino della Sala Stampa.
Il documento si intitola “Sull’uso della Liturgia romana anteriore alla riforma del 1970”, né più né meno come il “Summorum Pontificum”, e sottopone quest’uso a nuove condizioni, più restrittive delle precedenti, abrogando le norme incompatibili. Lo accompagna una Lettera ai Vescovi, senz’altro preziosa per conoscere la mens legislatoris, ma in sé e per sé sprovvista di carattere normativo: serve ad interpretare la legge quando essa è dubbia (cfr. can. 17), non a stabilire qualcosa che in essa non stia scritto.
Ma, soprattutto dinanzi ad una clausola abrogativa che sembra volta a far tabula rasa di tutto il preesistente, occorre ricordare alcuni princìpi generali del diritto canonico che depongono in senso opposto:
l’abrogazione per incompatibilità presuppone l’integrale riordino della materia (can. 20); se si modifica solo qualche punto, si ha abrogazione parziale detta anche deroga, ma il resto della disciplina preesistente rimane in vigore;
nel dubbio, l’abrogazione non si presume, né la totale né la parziale; anzi, le due leggi vanno conciliate in via interpretativa (can. 21);
tutti i provvedimenti in favore di fedeli singoli o associati debbono sempre interpretarsi in modo tale che essi conseguano effettivamente un vantaggio (cfr. cann. 36, 77, 92);
le leggi che restringono l’uso dei diritti vanno soggette ad interpretazione stretta (can. 18);
il diritto particolare, come ad es. statuti e costituzioni dei religiosi, e le consuetudini ab immemorabili si abrogano solo se espressamente menzionati (cann. 20 e 28).
Il primo punto è particolarmente importante nel nostro caso perché, nonostante l’identità del titolo, in realtà l’ambito di applicazione di questo nuovo m.p. è assai più ristretto. Come già è stato notato in una delle prime reazioni “a caldo”, esso si concentra esclusivamente sulla Messa, senza nulla dire degli altri Sacramenti, dei Sacramentali o del Breviario: su tutto ciò, dunque, il “Summorum Pontificum” resta in vigore.
Veniamo dunque ad esaminare il nuovo regime giuridico delle condizioni cui è sottoposta la celebrazione secondo il Messale del 1962.

1.1 Diritto transitorio: si può celebrare fino a nuovo ordine
Il problema più urgente in assoluto riguarda la fase transitoria, poiché si è prevista un’entrata in vigore immediata della nuova disciplina, che sostanzialmente prevede il riesame, da parte dei Vescovi, di tutte le Messe pubbliche già autorizzate, dei gruppi esistenti e finanche delle Parrocchie personali erette, senza una disciplina transitoria che chiarisca come ci si debba regolare nel frattempo.
Per fortuna, soccorrono i cann. 46 e 47: l’autorizzazione a celebrare, prevista anche dal “Summorum Pontificum” rispetto alle richieste di un coetus, è un atto amministrativo, precisamente una licentia, e quindi a) conserva il proprio valore anche se cambia la competenza a provvedere, in questo caso trasferita dai Parroci ai Vescovi; a fortiori dunque se, come di fatto nella maggior parte dei casi, è stata concessa dal Vescovo; b) per revocarla o modificarla occorre un nuovo provvedimento apposito, che diverrà efficace solo con la notifica ai destinatari.
Stesso discorso riguardo al fatto che è cambiata la legge e vi sono nuove condizioni per autorizzare: il can. 58 §1 prevede che i decreti perdano valore quando cessa la legge in applicazione della quale sono stati emanati; ma, anche se magari qualche atto autorizzativo può essere stato intitolato “decreto”, questo è un errore, non ne muta la natura di licentia e tantomeno incide sul regime applicabile, che è quello dei rescritti (can. 59 §2), i quali non cessano per legem contrariam (can. 73). (2)
L’interpretazione opposta, del resto, sarebbe palesemente iniqua: anche gruppi di fedeli che potrebbero benissimo soddisfare i nuovi requisiti e continuare nelle celebrazioni si vedrebbero, invece, costretti ad interromperle per il tempo necessario a vedersi… confermare lo status quo ante.
Decisamente poco sensato.
In altre parole: de iure, finché i singoli Vescovi non intervengono, tutto rimane e prosegue come prima.

1.2 La logica del sospetto e le sue conseguenze
Questo ci porta, quasi automaticamente, a trattare i problemi connessi all’occasio legis. Problemi che, a loro volta, possono assumere valore interpretativo rispetto ad un testo normativo dubbio, ex can. 17.
L’unica ragione addotta per l’intervento normativo, cui il Papa si dice perfino “costretto” dalle circostanze, è che “Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni […] mi rattrista un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la ‘vera Chiesa’.”.
Il fenomeno esiste: non neghiamolo, non nascondiamoci dietro a un dito.
La logica del “Summorum Pontificum” era una logica di riconciliazione. Molti hanno ritenuto di potersi avvalere dei diritti da esso concessi in un senso diametralmente opposto. E troppi sono passati dalle riserve sulla riforma liturgica, in sé perfettamente lecite e pure giustificate, alla negazione radicale della “legittimità” del Messale di Paolo VI, cioè a negare che abbia valore sostanziale di legge canonica in quanto (difettoso, ma comunque) effettivamente ordinato al bene comune. Su tutto il problema, non posso che rimandare a quanto ho scritto altrove solo pochi giorni fa, perché l’argomento è troppo ampio per questa sede; mi limito a dire che questo “rifiuto in linea di principio del valore e della santità [= capacità di santificare] del nuovo rito” non era consentito neanche da Benedetto XVI e la sua diffusione crescente ha offerto ai nemici della Liturgia tradizionale il migliore dei pretesti possibili.
Ma quello che nei singoli come persone private – un nome su tutti: Andrea Grillo, il cui commento alle nuove norme merita attenzione – è un pretesto e nulla più, in bocca al legislatore è diventato causa motiva della legge. Il che, paradossalmente se vogliamo, non è privo di vantaggi: succede spesso, in molti ambiti e diverse circostanze, che quelli che non c’entrano nulla facciano le spese di problemi causati da altri,.. tuttavia il diritto canonico non segue mai questa logica, perché considera la salvezza di ogni singola anima così importante da piegare anche la lettera della legge; e quindi, per forza di cose, ogni caso e ogni persona fanno storia a sé.
In altre parole: il legislatore ha ritenuto necessario disporre una verifica a tappeto, per accertare “che tali gruppi non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici” (art. 3 §1 TC). Ma se avesse ritenuto – come legislatore, al di là delle ipotetiche opinioni personali di J.M. Bergoglio – che tutti o quasi tutti i membri dei gruppi non soddisfino tale requisito, secondo logica avrebbe proibito tout court l’uso del Messale del 1962 nelle Messe cum populo, ripristinando cioè il regime ante 1984.
Invece non lo ha fatto.
Ripeto: non lo ha fatto.
Pertanto, siccome lo vorranno certamente fare moltissimi Vescovi imbevuti di “spirito del Concilio”, è necessario opporre loro l’irrazionalità di una presunzione assoluta di colpevolezza della quale, oltretutto, né il testo normativo né la lettera di accompagnamento recano traccia.

1.3 Campi di rieducazione e Messa ad esaurimento?
Sia la “Quattuor abhinc annos” sia la “Universae Ecclesiae” insistevano sulla necessità di riconoscere “la validità e la legittimità” del Messale di Paolo VI; adesso, l’art. 3 §1 estende il campo a “la riforma liturgica”. La Lettera ai Vescovi chiarisce ampiamente che, nella mens legislatoris, essa si è svolta in piena sintonia con la volontà del più recente Concilio, nonché in modo fedele alla Tradizione, ed è imperativo che i Vescovi operino “perché si torni a una forma celebrativa unitaria”, quella nuova. Ce n’è abbastanza per chiedersi se la “cura pastorale e spirituale dei fedeli”, ex art. 3 §4 TC, non debba consistere – anche o forse soprattutto – nel convincerli che “Chi volesse celebrare con devozione secondo l’antecedente forma liturgica non stenterà a trovare nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli elementi del Rito Romano, in particolare il canone romano, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti.”.
Senza dubbio deve ritenersi superata la logica del reciproco arricchimento tra le due forme del rito romano, perché è scomparsa dai programmi l’idea stessa di una “riforma della riforma” in cui si recuperi qualcosa che sarebbe andato perduto: adesso si invoca lo Spirito Santo “perché per la vostra cura e vigilanza esprima la comunione anche nell’unità di un solo Rito, nel quale è custodita la grande ricchezza della tradizione liturgica romana.”. Insomma, il traguardo ideale è sicuramente l’adesione di tutti alla Grande Riforma.
Ma “la realtà è superiore all’idea”.
La legge non ha fissato date di scadenza per l’uso della Liturgia anteriore, non ha prescritto positivamente che esso prosegua solo a patto che i fedeli ne accettino il carattere temporaneo e propedeutico alla loro rieducazione; già solo per questo, sul piano giuridico vale la regola per cui non si presumono né la temporaneità della legge né la precarietà dei diritti o delle stesse grazie (“Decet concessum a principe beneficium esse mansurum”: Regulae Juris in Sexto, n. 16), mentre su quello pastorale si apre quantomeno uno spazio che mi permetto di definire, per analogia, “amorisletiziesco”, in cui i fedeli potrebbero restare a tempo indefinito in una situazione disapprovata, che però è il massimo che Dio chieda loro in quelle date circostanze.
Ma si tratta poi veramente di una situazione disapprovata?
In realtà, la Lettera ai Vescovi sembra distinguere tre situazioni diverse:
1.la volontà di favorire la ricomposizione dello scisma con il movimento guidato da Mons. Lefebvre”, che sarebbe il motivo principale dell’indulto del 1984/88; a questo proposito, non si introducono innovazioni, nel senso che il fine di ricomporre lo scisma non può essere ripudiato da alcun Papa, tantomeno poi da uno che ha obiettivamente largheggiato in concessioni a ciò rivolte, e che l’unica disposizione che riguardi i cc.dd. Istituti dell’”Ecclesia Dei” si limita a trasferire la competenza sui medesimi ad altro Dicastero della Curia Romana;
2.la possibilità di usare liberamente il Messale Romano promulgato da san Pio V, determinando un uso parallelo al Messale Romano promulgato da san Paolo VI”, vista sostanzialmente come una lettura abusiva, fonte di fenomeni che Benedetto XVI ha inteso regolare e di una categoria di fedeli che “si sono radicati nella forma celebrativa precedente e hanno bisogno di tempo per ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II”; (3) qui va notato che si accetta questo loro bisogno di tempo, provvedendo frattanto al loro “bene mediante le celebrazioni in essere;
3. l’uso del Messale del 1962 come fonte di contestazione, che deve cessare immediatamente.
Riguardo al punto 2, si può certamente aggiungere che i Vescovi sono esortati ad agire in modo tale da convincere i fedeli a rientrare nei ranghi novusordisti, ma questo dev’essere fatto in modo tale da non spingerli a rompere la comunione ecclesiastica (vedi punto 1) e in particolare mediante l’azione contro gli abusi liturgici invalsi nei riti riformati, “perché ogni liturgia sia celebrata con decoro e fedeltà ai libri liturgici promulgati dopo il Concilio Vaticano II”, sul chiaro presupposto che i fedeli passati al Vetus siano soprattutto disgustati dagli abusi – il che può ben essere stato il loro movente iniziale in molti casi – e che quindi non avrebbero problemi a tornare ad un Novus ben celebrato, opinione a mio avviso destituita di fondamento.
Seguendo tale logica, perciò, bisogna concludere che, almeno finché gli abusi resteranno praticati su vasta scala, le celebrazioni secondo il Messale del 1962 dovranno proseguire: revocarle prima significherebbe spingere alla rottura fedeli che, a quel punto pure secondo il Papa non ritroverebbero affatto la ricchezza della tradizione del rito romano, bensì una Messa falsata; e oltretutto applicherebbe solo a metà una mens pontificia che invece è unitaria.
Superfluo aggiungere che non ritengo affatto probabile un’azione decisa contro gli abusi e che il Vescovo che la intraprendesse, oltre a ritrovarsi senz’altro subissato di critiche dagli stessi settori che osteggiano il rito tridentino, potrebbe perfino non osteggiare quest’ultimo.

2. La condizione giuridica della Messa tridentina
Recita TC art. 1: “I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano.”.
La conformità al Concilio apparirà almeno dubbia a chiunque legga il testo della Costituzione sulla Liturgia… (4) e questo ha una certa importanza per l’interpretazione dell’art. 1.
Esso, infatti, abroga per incompatibilità l’art. 1 del “Summorum Pontificum”, là dove stabiliva che le espressioni di codesta unica lex orandi fossero due, la forma ordinaria e la extraordinaria. Lo scopo è essenzialmente privare di rilievo teologico il Messale di S. Pio V: tutta la Tradizione è passata nel Messale nuovo ed è espressa da esso, ci dice la Lettera ai Vescovi. Tesi che non regge alla prova dei fatti, mostrava solo pochi giorni fa Matthew Hazell, almeno riguardo all’eucologia; ma hic et nunc prendiamola per come viene enunciata.
Tutto il resto dell’art. 1 del “Summorum Pontificum” rimane in vigore.
Non viene affatto rinnegata, innanzitutto, l’ingiunzione di attribuire al Messale precedente il debito onore: “Non per contraddire la dignità e grandezza di quel Rito i Vescovi riuniti in concilio ecumenico hanno chiesto che fosse riformato”, scrive sempre la Lettera ai Vescovi.
Tantomeno si torna sulla questione chiarita apertis verbis da Benedetto XVI, in forma di legge e quindi con valore di interpretazione autentica ex can. 16 §1: il Messale del 1962 non è mai stato abrogato. A tacer d’altro, se tale fosse stato l’intento, si sarebbero inserite nella clausola abrogativa anche le consuetudini ab immemorabili e gli indulti, visto che la Congregazione per il Culto Divino sa almeno dal 1974 che i tradizionalisti si appoggiano su quelle e su questi, precisamente il c.d. “indulto perpetuo” di S. Pio V, per propugnare la non abrogazione.
Per questa ragione fondamentale, non importa quanto possa suonare diffidente e restrittivo il resto di TC: è tuttora in vigore l’affermazione di principio “celebrare licet”. Anche se bisogna usare cautela con le versioni provvisorie in lingua volgare, ce lo conferma l’uso costante dei termini “autorizzazione” e “autorizzare”: non solo in diritto amministrativo italiano, ma anche in ambito canonico (dove però la terminologia è molto più fluida), si concede qualcosa che in sé non è dovuto o comunque una facoltà che prima non si aveva, ma si autorizza sempre e solo l’esercizio di un diritto che già si possiede.
Quindi si può tuttora parlare di un diritto alla Messa di S. Pio V?
Sì.
Un diritto malmenato, potremmo dire. Sorvegliato a vista con i fucili puntati. Conservato solo in vista di una sua eutanasia più o meno dolce, più o meno incombente. Ma tuttora un diritto.
Almeno per quelli che già si sono “radicati” in questa Liturgia: precisamente il diritto ex can. 214 di “rendere culto a Dio secondo le prescrizioni del proprio rito, approvato dai legittimi Pastori della Chiesa”. (5) Perché un Messale in vigore, per definizione, non si può considerare disapprovato. (6)
Ciò è tanto più vero nel nostro caso, in quanto, malgrado l’indiscutibile logica del sospetto che la anima, la Lettera ai Vescovi sostanzialmente implica che Benedetto XVI abbia sbagliato nella valutazione prognostica sull’assenza di divisioni, sconfessione del Concilio o contestazione della riforma; non però nell’intento di “favorire l’accesso a quanti – anche giovani –, «scoprono questa forma liturgica, si sentono attirati da essa e vi trovano una forma particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia»” e neppure nel sotteso giudizio di fatto.
Anzi, nel momento in cui scrive che “Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze…”, tanto da costringerlo (!) a revocarla, il Papa implica che sarebbe o sarebbe stata cosa buona “ricomporre l’unità […] nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche” e che TC priva i fedeli di qualcosa di buono, in nome di un bene maggiore. Non vi è dubbio che egli consideri preferibili i frutti della riforma liturgica, che assicurerebbero una realizzazione piena della participatio actuosa; si scaglia però contro l’“uso distorto” di un Messale che “Per quattro secoli […] è stato […] la principale espressione della lex orandi del Rito Romano, svolgendo una funzione di unificazione nella Chiesa”, (7) non contro il Messale in sé e neppure contro la sensibilità liturgica ad esso legata: vuole insegnarle a trovare quello che cerca nel Messale riformato, ma non dice che cerca cose sbagliate. (8)
Insomma, per questo complesso di ragioni, il diritto al rito tridentino nella versione del 1962 persiste ed esso rimane in vigore. Da più parti si è parlato di una c.d. “abrogazione di fatto”. No: dire “abrogazione di fatto” è una contraddizione in termini, l’abrogazione è un fenomeno giuridico, non un dato empiricamente osservabile.
Invece, ciò che TC indubbiamente vuol fare e fa è sottoporre l’uso di una legge ancora in vigore a condizioni assai più restrittive di prima. Vediamo quali.

3. L’autorità competente
Secondo TC art. 2, “Al vescovo diocesano, quale moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata, spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi. Pertanto, è sua esclusiva competenza autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica.”. (9)
Questa competenza è esclusiva. Con buona pace dell’articolista di Rorate Caeli, già citato, ciò significa che quella attribuita ai Parroci da SP art. 5 non sopravvive; sopravvivono, però, i provvedimenti da loro fin qui adottati.
Inoltre, poiché le note richiamano la disciplina generale del Codice su poteri e doveri del Vescovo, ad essa si può ben fare riferimento per chiarire cosa significhi “nella diocesi”.
Anzitutto, la potestà esecutiva, che qui viene in gioco, ex can. 136 si esercita sui sudditi (e, a certe condizioni, su chi sia di passaggio nel territorio). Tuttavia, la disciplina prevista per gli Istituti e le Società di diritto pontificio prevede che essi, sebbene non diventino sudditi dell’Ordinario del luogo perché sottoposti alla S. Sede e ai propri Superiori (cfr. can. 134), abbiano tuttavia bisogno della sua autorizzazione per avviare un qualunque tipo di apostolato esterno, ivi comprese le celebrazioni liturgiche aperte alla generalità dei fedeli. Altrimenti detto: il diritto pontificio consente ad un Istituto di stabilirsi dove vuole, perché la sua esistenza è legittimata da Chi possiede giurisdizione piena, suprema, immediata e universale; ma siccome la costituzione divina della Chiesa gli affianca un altro livello, quello dei singoli Vescovi, ogni volta occorre il consenso di quello interessato per poter fare qualunque cosa coinvolga i fedeli commessi alle sue cure.
Quindi, gli Istituti dell’“Ecclesia Dei” possono celebrare senza autorizzazione vescovile al loro interno, non se intendono fare apostolato esterno nella Diocesi in cui si trovano.
Questa, d’altronde, è la situazione che è sempre esistita, di diritto e di fatto, fin dal 1988.
Il che, peraltro, ci conferma che rispetto a tali Istituti nulla è cambiato: i loro Sacerdoti sono autorizzati ipso iure, in forza dei privilegi accordati all’erezione delle singole realtà, e non hanno bisogno di esserlo né dalla S. Sede, che per l’appunto lo ha già fatto in via generale, né dai loro Superiori, ai quali non può estendersi la previsione di TC art. 2, perché, ex can. 134 §3, l’espressione “Vescovo diocesano” non include nemmeno il Vicario generale.

4. La condizione dei Sacerdoti
Com’è noto, l’art. 2 del “Summorum Pontificum” stabiliva la piena libertà, per tutti i preti della Chiesa latina, di celebrare sine populo con l’uno o l’altro dei due Messali Romani in vigore. Novità rilevante, perché fin dal 1969 i vari provvedimenti avevano, invece, sempre richiesto un permesso (dell’Ordinario o della S. Sede) anche per le Messe antiche sine populo.
Gli artt. 4 e 5 di TC ripristinano tale regime autorizzatorio, applicabile in tutti i casi diversi dalle celebrazioni pubbliche per un gruppo stabile, regolate all’art. 3. Debbo nuovamente dissentire dall’articolista di Rorate Caeli, secondo cui andrebbero autorizzate solo le Messe cum populo: la differenza di disciplina tra chi è stato ordinato prima di TC e chi lo sarà dopo, a mio avviso, si spiega soltanto con il fatto che SP 2 è stato considerato un diritto acquisito in permanenza da ogni singolo Sacerdote: si regola la prosecuzione del suo esercizio in avvenire, rimettendola però al Vescovo diocesano. Invece, i futuri ordinati sono assoggettati ad un regime più severo, perché perfino il Vescovo è tenuto a “consultare” la S. Sede. Che non è troppo chiaro cosa dovrebbe o potrebbe valutare meglio di lui, che conosce la persona.
Si dirà che pure per questi ultimi, tuttavia, si parla di autorizzazione, il che implica che anch’essi godano di un diritto.
Sicuro. Ma un diritto fondato su altra base.
L’art. 1 di TC ha abrogato il presupposto dell’espressione forma extraordinaria, che non compare affatto nel resto del nuovo m.p.
E tuttavia, il legislatore ha ribadito, ivi e soprattutto nella Lettera ai Vescovi, che i due Messali appartengono allo stesso rito. Non poteva fare altrimenti, dopotutto, se voleva sottolineare un qualunque genere di continuità fra tradizione liturgica romana e riforma.
Ma allora, se entrambi questi Messali si possono usare, cosa mai saranno se non due forme di uno stesso rito?
Proprio il caso dei neo-ordinandi, a mio avviso, prova che lo restano anche sotto l’imperio di TC (che forse evita di parlare di forma extraordinaria perché spera che non avrà carattere permanente): ai sensi del can. 846 §2, tutti i ministri latini debbono celebrare i Sacramenti secondo il loro “rito proprio”. Appunto questo era il presupposto di SP 2: se siamo comunque all’interno di uno stesso rito, allora ha senso che ogni Sacerdote di quel rito possa scegliere liberamente tra i due Messali. E per chi era già prete sotto il vigore di tale norma, si è cristallizato un diritto per cui egli non aveva bisogno di alcun permesso, né dell’Ordinario né della S. Sede; (10) si tratta solo di regolare la prosecuzione del suo esercizio effettivo. Ma se esiste un diritto anche per coloro che non hanno potuto beneficiare di SP 2, quale ne può essere il fondamento? Direi proprio il can. 846 §2, in combinato disposto con le parti ancora in vigore di SP 1: non esiste alcuna contraddizione tra le due diverse versioni, chiamiamole così, del rito romano (dopotutto, è quanto dice anche l’odierna esaltazione della riforma!), sono entrambe in vigore, quindi all’interno del rito proprio il ministro può scegliere.
Punto notevolmente importante: non risulta abrogato l’art. 4 del “Summorum Pontificum, quindi i fedeli potranno comunque essere ammessi alle celebrazioni sine populo.
Questo appare, allo stato, l’unico mezzo per soddisfare le aspirazioni dei coetus che nascessero in futuro e, purtroppo, anche di quelli già nati ma che ancora non hanno visto soddisfatte le proprie “giuste aspirazioni”. Inoltre, corrisponde a quanto raccomandato in generale dal Codice al Sacerdote (can. 906) e all’esercizio di una facoltà spettante ad ogni fedele (can. 923).

5. I coetus fidelium
Per quanto esposto non a caso in esordio, §§ 1.1-1.3, in linea di principio ogni coetus conserva la sua Messa.
Almeno fino a nuovo ordine.
E dunque, in termini pratici, la prima cosa da fare è semplicemente andare avanti. Magari prendendo contatto con il Vescovo, per scrupolo o per prudenza. Ma non per obbligo.
Dopodiché, il Vescovo dovrà in qualche modo sincerarsi che il gruppo in questione non escluda “la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici”.
Di fatto accadrà che alcuni riterranno che l’esistenza stessa di siffatti gruppi implichi un’esclusione radicale di tutto ciò (così contraddicendo lo stesso testo di TC); gli altri, in definitiva, dovranno accontentarsi delle dichiarazioni dei singoli, del fatto che si presentino davanti all’autorità competente e dell’esperienza pregressa nei rapporti con loro, visto che parliamo di coetus che già fruiscono della Messa.
A mio parere, l’indebita esclusione va riferita al coetus come tale: lo esige il tenore letterale, confortato anche dalla logica, perché le posizioni erronee di un aderente non possono nuocere a tutti gli altri, tanto più che il coetus potrebbe benissimo essere una realtà di puro fatto, non formalizzato in associazione neppure a termini di diritto statale, e che non è affatto detto che tutti gli aderenti si conoscano e frequentino anche extra Missam. In concreto, la sola strada praticabile per il Vescovo sembra verificare le dichiarazioni pubbliche dei capi, o di chi comunque gli si presenta in dichiarata rappresentanza del coetus. E siccome non è difficile, oggigiorno, raccogliere ampia messe di commenti su Internet, temo davvero che più di una persona rischi sgradite sorprese.
Va peraltro osservato che, diversamente dalla “Quattuor abhinc annos”, TC non vieta il dubbio sulla validità e legittimità della riforma liturgica, ma soltanto la loro positiva esclusione. Una lettura contraria cozzerebbe contro il can. 212. Non sembra quindi neppure vietato sostenere che il rito antico sia migliore del nuovo, purché non si privi di valore quest’ultimo: affermare che una legge è veramente tale non significa dirla perfetta né considerarla la migliore in assoluto. Certo, non è detto che il mitriato interlocutore sarà tanto comprensivo o così attento alla logica delle distinzioni.
Quanto poi all’adesione al Magistero, il massimo dei massimi che questi potrebbe pretendere – forse: ci sono buone ragioni per ritenerla un’imposizione sproporzionata – è la Professione di Fede, richiesta ex can. 833 a chiunque debba assumere un ufficio ecclesiastico, quindi buona a fortiori per chi non pretende certo di svolgere un incarico ufficiale. Nella formula di Giovanni Paolo II, essa prevede un assenso globale a tutto il Magistero, differenziato però secondo i suoi tre gradi (e quindi con implicito riconoscimento dell’esistenza del dissenso lecito da quello mere authenticum); ciò dovrebbe eliminare ogni problema.
Da un punto di vista pratico, il nuovo regime vede qualche luce tra le ombre.
Intanto, le celebrazioni possono essere autorizzate in “uno o più luoghi”, il che permette alle fortunate Diocesi in cui vi sono più Messe di continuare così.
Inoltre, il divieto di tenerle nelle chiese parrocchiali, al di là dell’impressione di apartheid che suscita (e in effetti la riesumazione di questa parte della “Quattuor abhinc annos” si spiega proprio con l’abbandono della logica dell’arricchimento reciproco), almeno in Italia non dovrebbe creare grossi problemi, stante l’abbondanza di chiese non parrocchiali, oratori e cappelle, e all’atto pratico evita anche questioni spinose come l’allestimento del presbiterio, che sono una costante della coabitazione con il Novus.
Infine, il divieto di erigere nuove Parrocchie personali implica, a contrario, che resti ancora in vigore il resto dell’art. 10 del “Summorum Pontificum”: si possono sempre deputare rettori o cappellani, anzi ciò appare perfettamente in armonia con il precetto di TC 3 §4, che giustamente vuole “che il sacerdote incaricato abbia a cuore non solo la dignitosa celebrazione della liturgia, ma la cura pastorale e spirituale dei fedeli”.
Fine delle luci.
Un elemento che potrei definire di penombra, nel senso che per me è positivo ma rischia di danneggiare molti fedeli anche inconsapevoli, è il fatto che TC, riferendosi sempre e solo al “Messale del 1962”, esclude la legittimità dell’uso dei Messali ante-riforme di Pio XII. La tendenza al loro recupero ha preso piede negli ultimi anni e forse spiega la quarta domanda del questionario da cui scaturisce TC: “Le norme e le condizioni del Summorum Pontificum sono rispettate?”. Di certo, questa manifestazione di volontà del legislatore priva di valore qualunque consuetudine si stesse formando in tal senso, lasciando al più salvi i privilegi per l’uso della Settimana Santa preriformata di cui godono dom Alcuin Reid e i suoi monaci in Provenza, nonché alcuni Istituti dell’“Ecclesia Dei se quella che era una facoltà temporanea e ad experimentum non è già spirata. Da un lato, non posso che rallegrarmi di veder chiarito e ribadito quale sia la legge in vigore; dall’altro, temo che si trovino a rischio, magari senza nemmeno sapere o capire il perché, anche realtà storiche.
E veniamo alle ombre.
La più pesante è senz’altro il divieto di “autorizzare la costituzione di nuovi gruppi”, che in realtà – siccome i gruppi si creano di fatto, per giunta nell’esercizio di un diritto ex can. 215 – vieta di autorizzare Messe per gruppi non ancora esistenti alla data di TC. Si tratta di un vero divieto, non di una mera raccomandazione (“avrà cura” fa da rafforzativo), e l’eventuale dispensa spetta alla Sede Apostolica, dunque alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
Ciò significa, senza alcun dubbio, che si sconfessa la logica sottesa a SP e soprattutto alla “Universae Ecclesiae”, secondo cui questa forma liturgica è un tesoro da offrire a tutti. Logica, del resto, strettamente legata all’idea di una “riforma della riforma” e non compatibile con l’esaltazione dei riti riformati così come stanno (de iure, con netti distinguo rispetto alla prassi).
Tuttavia, già l’indulto di Agatha Christie e quello del 1984 ragionavano in termini di riserva indiana.
E gli indiani non si sono affatto estinti.
In più, sarà il caso di notare che, nel testo originario, la “Quattuor abhinc annos” prevedeva addirittura Messe riservate a persone determinate, in sostanza con concessione nominativa. Ma questo regime è caduto nella prassi, anche solo per l’impraticabilità di qualunque genere di controllo di documenti all’ingresso della chiesa, e si è passati ad un diritto riconosciuto al coetus, inteso come gruppo cui possono unirsi altre persone.
Questo principio resta valido: nulla, nel testo di TC, lascia intendere un uso di coetus differente da quello di SP e della prassi anche anteriore ad esso. Anzi, lo status quo ante regolato da SP 5 è appunto il presupposto di TC 3.
Rispetto alle celebrazioni occasionali, di cui all’art. 5 §3 SP e non menzionate in TC, ritengo che si debba distinguere: se sono chieste dagli appartenenti al coetus, logica vuole che provveda il Sacerdote delegato dal Vescovo alla loro cura pastorale; là dove non vi sia un coetus preesistente o la richiesta giunga da fuori Diocesi, varrà la competenza generale del Vescovo ai sensi di TC 2; ma un Sacerdote che volesse celebrare sine populo, munito di autorizzazione del proprio Ordinario all’uso di quel Messale, e ovviamente del Celebret richiesto ex can. 903, sarà autorizzato dal Parroco o rettore della chiesa cui si rivolge.
Invece, la facoltà accordata al Vescovo di stabilire i giorni delle celebrazioni stabili significa che non è di per sé assicurata la frequenza settimanale, molto meno il Triduo Sacro (previsto da UE 33); del resto, nei fatti si sono viste fin troppe autorizzazioni episcopali ad experimentum per una volta al mese, o cadenze analoghe.
Tuttavia, una volta di più occorre considerare lo status quo ante.
Qualunque modifica in peggio, soprattutto della frequenza ma anche dell’orario, va ad impattare su una situazione già autorizzata e implica un danno per quei fedeli: come minimo, dovrà essere giustificata e, prima ancora, discussa con gli interessati (cfr. cann. 50 e 51).
Va notato che non è stato abrogato l’art. 7 del “Summorum Pontificum”: i fedeli conservano il diritto al ricorso, che può approdare anche in Segnatura. E siccome questo è il Tribunale – l’unico – dove si fanno valere contro l’amministrazione ecclesiastica le esigenze di giustizia, non di mera opportunità, ne segue che il loro resta un diritto soggettivo. Tanto più che si tratta di un permesso già accordato.
Un’ultima notazione rispetto alla prescrizione di procedere “nelle parrocchie personali canonicamente erette a beneficio di questi fedeli, a una congrua verifica in ordine alla effettiva utilità per la crescita spirituale, e valut[are] se mantenerle o meno.” (TC 3 §5). Non posso fare a meno di trovare insultante verso gli stessi Vescovi l’affermazione, loro indirizzata dalla Lettera, secondo cui tali enti sarebbero nati per ragioni “legate più al desiderio e alla volontà di singoli presbiteri che al reale bisogno del «santo Popolo fedele di Dio»”: Dio solo sa chi possa aver scritto cosa nelle relazioni inviate a Roma, per provocare un giudizio simile. Ma la valutazione se mantenerle o meno si presenta assai facile per chi ha appena deciso di istituirle, come ad es. l’Arcivescovo di Ferrara; e in generale, siccome gli uffici ecclesiastici hanno carattere stabile per definizione (cfr. can. 145), la loro pur minacciata sopravvivenza corrisponde un po’ a tutto lo status della Messa tridentina all’indomani di TC.

6. Conclusioni
Cosa accadrà d’ora in avanti dipenderà essenzialmente da tre variabili: l’atteggiamento dei fedeli, dei preti e dei Vescovi.
Riguardo a quest’ultimo, si può ben temere di assistere ad una mattanza di coetus, se non fosse che i più ostili hanno sempre impedito che si autorizzasse qualunque celebrazione. Quindi, al netto degli avvicendamenti e degli adeguamenti al clima politico, potrebbero perfino non scatenarsi troppe tempeste.
La cosa peggiore che i fedeli possano fare in questo momento mi sembra perdere la calma. E perciò mi sembra urgente far sapere a tutti che, per diritto, le celebrazioni in corso continuano a svolgersi regolarmente e tocca ai Vescovi muoversi, se e in quanto lo vogliano fare.
Ma la variabile più importante sono i preti.
Questi non sono gli anni Settanta: il clero si è ridotto fin troppo, ma ciò significa che la percentuale di Sacerdoti interessati a celebrare more antiquo è cresciuta. Inoltre, è calata l’età media. Tutto questo rende minore, ceteris paribus, il rischio di sanzioni.
Che vi sia un certo numero di defezioni per pavidità o carrierismo va messo in conto. Così come un certo numero di fedeli si rivolgerà a lefebvriani, williamsoniani e sedevacantisti, secondo i casi, soprattutto se il loro Vescovo userà la mano pesante.
Ma se, in generale, quei Sacerdoti che con il “Summorum Pontificum” hanno scoperto la Messa tradizionale terranno duro nella volontà di celebrarla, la situazione concreta loro e dei fedeli non peggiorerà. Almeno non per chi ha già ottenuto la celebrazione ai sensi del m.p. precedente; gli altri, oggi, non possono che sperare in forme di soccorso semiclandestine od unirsi a coetus già autorizzati.
Resta da chiedersi, naturalmente, che avvenire possa esistere per gli Istituti dell’“Ecclesia Dei”: anche la loro esistenza deve ritenersi a tempo? Nel testo di TC nulla consente di pensarlo, ma la logica della Lettera ai Vescovi parrebbe esattamente quella: prevarrà lo scopo di ricomposizione dell’unità? Lo potranno dire solo le prime mosse della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata. Va da sé che una nuova crisi del 1999-2000, però su scala ben più vasta, metterebbe queste realtà nella tristissima condizione di dover scegliere tra “piena comunione” e fedeltà al carisma fondativo. Esiste anche l’astratta possibilità che si riesumi la proposta del 2000-2001: far confluire tutti i tradizionalisti, preti e laici, in un’Amministrazione Apostolica con giurisdizione mondiale, de facto una Chiesa rituale anche se con giurisdizione cumulativa con i Vescovi. Ma questo imporrebbe di dire, in sostanza, che si tratta di un rito diverso…
Nel 1988 la questione tradizionalista sembrava sistemata, per non dire spacciata, dalla rottura tra Roma e Léfebvre. Dieci anni dopo, il pellegrinaggio romano delle realtà “Ecclesia Dei” rivelò un popolo giovane, vitale, in crescita.
Come saremo messi noi di qui a dieci anni?
Nello scenario migliore, più o meno tutti i centri di Messa saranno sopravvissuti, dopo l’esodo degli elementi più radicali i coetus avranno ripreso a crescere, gli Istituti dell’“Ecclesia Dei” saranno cresciuti a loro volta e nuovi coetus continueranno a bussare alla porta del Vescovo, o anche del Papa, in cerca di una dispensa dal divieto.
Nel peggiore, vedremo una reazione a catena tra soppressioni, fedeli che reagiscono molto sopra le righe (più comprensibile per me, non per tanti Vescovi), altre soppressioni, preti in fuga e Istituti dell’“Ecclesia Dei” relegati nel ghetto, snaturati o addirittura soppressi. Nessun dubbio che le realtà oggi non in “piena comunione” crescerebbero, ma dubito che arriverebbero a compensare le perdite subite.
La realtà che vedremo sarà, immagino, una via di mezzo tra questi due estremi. Ma in ogni caso c’è una certezza: tra dieci anni, la generazione clerical-sessantottina, infatuata di rivoluzione conciliare, sarà morta o al cronicario. Oggi, codesti personaggi sono il problema principale. Si tratta di arrivare vivi, attivi e in forze a quando costoro non saranno più in forze, attivi e neppure vivi (se non nell’eternità). Già solo per questo, i segni dei tempi non preannunciano il sereno, no, ma indicano più un temporale estivo che un’altra traversata nel deserto di quarant’anni. Questa Messa non è morta allora e non morirà adesso: resta da vedere se potrà ancora essere effettivamente celebrata in “piena comunione” o soltanto al prezzo di rompere con Roma.
E in definitiva, sta a Roma deciderlo.

Genova, 17 luglio 2021

Guido Ferro Canale

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(1) Con entrata in vigore immediata, perché – stando almeno alla versione italiana del sito del quotidiano – il giorno stesso è apparso su L’Osservatore Romano.
(2) Non può valere in senso contrario l’art. 8 TC, “Le norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu Proprio, sono abrogate.”: intanto, a rigore una licentia non è una concessione, perché non accorda una grazia, ma un atto di giustizia che consente di esercitare un diritto che già si possiede; inoltre, tutti gli altri termini (norme, istruzioni, consuetudini) si riferiscono a regole generali e, nel dubbio, deve intendersi che lo stesso valga per questo, da riferirsi pertanto a privilegi; infine, ma non da ultimo, se per l’abrogazione è necessario “che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu Proprio”, comunque si deve riesaminare la situazione, dunque in attesa del “risultato” – appunto – di questo giudizio non può che restare in vigore lo status quo ante.
(3) Sembra appena il caso di osservare che, in genere, un lefebvriano non “ritorna” alla Messa di Paolo VI, perché non vi ha mai avuto a che fare.
(4) Per non parlare di A. REID, Sacrosanctum concilium and the Reform of the Ordo Missae, in Antiphon 3 (2010), pagg. 277-95.
(5) Verissimo che l’espressione “rito proprio”, quando è stato scritto il CIC, poteva solo riferirsi ai riti orientali, gli unici che allora fossero organizzati su base personale con relativi problemi di effettività e coesistenza, almeno quando gli Orientali si trovano in territorio latino; ma questo non esclude certo che l’ambito di applicazione di tale diritto si possa estendere in seguito – come di fatto è stato esteso – alla coesistenza tra quelle che sono dette due forme di uno stesso rito, però ai fini pratici del can. 214 (ed eventualmente per analogia) sono due complessi distinti di “praescripta proprii ritus”.
(6) Non è inutile un raffronto con la condizione del rito mozarabico: dopo la riforma approvata da Giovanni Paolo II, esso continua ad usarsi là dove si era conservato per privilegio (e si parla di un suo “uso ordinario”, senza particolari problemi o restrizioni), ma vi è la possibilità di un suo “uso extraordinario”, solamente per celebrazioni occasionali autorizzate in via preventiva a condizione (inter cetera) che i fedeli vengano preparati di volta in volta: rispetto a codesto “uso extraordinario” non si dà, evidentemente, un loro diritto perché non hanno potuto “radicarsi” nel rito in questione. Ma sebbene l’uso ordinario del Messale mozarabico sia tanto circoscritto, essenzialmente per ragioni storiche, ciò non implica affatto una sua disapprovazione.
(7) Si noti che questa frase implica che le varianti del rito romano rimaste in vigore dopo il 1571 fossero a loro volta “espressioni della lex orandi” del medesimo. Vale a dire che l’idea portata avanti dal “Summorum Pontificum” non viene sconfessata come assurda in sé.
(8) Perfino per me, che fin dal 2008 giustifico le “due forme di uno stesso rito” parlando di una “romanità opzionale” del Novus Ordo, il cui problema maggiore sta appunto nell’essere opzionale, questa valutazione, non importa se pontificia, è gravemente erronea. Concedo che, all’interno del nuovo Messale, vi siano (anche) materiali con cui mettere insieme qualcosa di tradizionale; ma proprio il fatto di doverlo mettere insieme è l’antitesi della tradizione liturgica e, comunque, restano lacune notevoli, dalle preghiere dell’Offertorio alla sistematica attenuazione del senso del peccato.
(9) A rigore, dovrebbe trattarsi piuttosto di seguire le “norme”; ma il termine più ampio comprende, verosimilmente, anche gli la prassi della Curia Romana, che del resto è fonte di diritto nel silenzio della legge (can. 19).
(10) Andrebbero peraltro considerati ancora validi gli indulti rilasciati dalla Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” fino al 14 settembre 2007, salvo il diritto del Vescovo di riesaminare la situazione.

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Miserere nostri, Domine!

lutto

Cari Amici,

ciò che temevamo è purtroppo accaduto: il Motu Proprio restrittivo del Summorum Pontificum è stato pubblicato, insieme ad una Lettera di accompagnamento. Abbiamo pregato che al Populus Summorum Pontificum fosse risparmiata questa nuova prova, ma essa si è invece abbattuta su di lui.

Il contenuto del nuovo Motu Proprio conferma, in larga parte, quanto era già stato sin qui anticipato da molteplici fonti. In ciò in cui si discosta dalle anticipazioni, purtroppo le peggiora. Cessa la libertà di celebrare secondo il Messale del 1962, se ne rende assai difficoltoso l’uso da parte dei giovani sacerdoti, si scoraggia decisamente la costituzione di nuovi coetus fidelium, quantomeno nelle diocesi in cui ne esista già almeno uno, si guarda con estremo sfavore alle parrocchie personali destinate alla celebrazione della liturgia tradizionale. Impressiona il bando del rito antico dalle parrocchie, quasi a circoscriverlo entro una specie di cordone sanitario per evitare che il popolo fedele venga a conoscerlo, ad amarlo, a praticarlo. La lettera di accompagnamento, infatti, ci dice chiaramente che quanti sono legati alla liturgia tradizionale – cioè noi, fedeli del Populus Summorum Pontificum – dovranno, dovremo «ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II».

Il Motu Proprio e la Lettera accompagnatoria ci sprofondano inevitabilmente nello sconforto, ci tentano alla disperazione, forse potrebbero addirittura indurci alla risposta rabbiosa ed alla ribellione fine a se stessa.

Ricordiamoci però di Ap. 3, 19: «Ego quos amo, arguo, et castigo. Aemulare ergo, et poenitentiam age» (Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti). Questo può essere per noi il tempo della purificazione. Per farci riflettere sulle nostre debolezze, sulla inadeguatezza del nostro apostolato liturgico e sulle mille occasioni perdute per ignavia, per orgoglio, per presunzione, per clericalismo, per paura, per amore di quieto vivere, per malintesa obbedienza… e, così, per farci strumenti più santi ed efficaci del rifiorire della Chiesa dal suo stesso interno, attraverso il rinascimento liturgico e la sua diffusione tra i buoni fedeli: ciò che incute tanto terrore ai modernisti ormai faccia a faccia con il loro tragico fallimento.

Accettare questa croce, affidandoci a Maria Santissima perché ci sia vicina e ci sostenga nello sforzo di portarla, non vuol dire, però, rinunciare alla giusta resistenza. Tanti amici sconcertati e disorientati si stanno chiedendo che cosa si possa e si debba fare; ed è certo che non resteremo muti e passivi spettatori mentre si cerca di rendere sempre più inattingibile un bene così prezioso come la S. Messa tradizionale. 

Ma proprio perché vogliamo resistere, non ribellarci; perché cerchiamo giustizia, e non rivalsa, non possiamo cedere alla tentazione di reagire scompostamente e precipitosamente, sull’onda della forte e dolorosa emozione che ci ha colpito all’uscita del Motu Proprio. Non venga mai meno la carità, ma si difendano la verità, la purezza delle nostre intenzioni e del nostro zelo liturgico, la solidità inattaccabile delle nostre buone e fondate ragioni: si persegua la giustizia nell’amore fraterno e nell’incrollabile attaccamento alla Chiesa di Cristo.

Per questo la nostra prima resistenza – cui ci spinge lo stesso amore per la Chiesa – deve essere, soprattutto in questi momenti concitati, la preghiera: chiediamo di essere illuminati per scegliere con prudenza, ma anche con fermezza, la giusta via, la strada migliore per servire la santità della liturgia, per ribadire con forza, alla luce del magistero liturgico di Benedetto XVI, che «nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto».

Corroborati da una sincera e fervente preghiera, affidati alla protezione potente di Maria Santissima, potremo così intraprendere con coraggio, e dopo matura riflessione, tutto quanto risulterà utile e necessario. Da parte nostra, non ce ne asterremo: come abbiamo già avuto modo di dire quando le prime nubi si addensavano in cielo, non mancheremo né di proporre e realizzare le iniziative che le circostanze renderanno opportune, né di sostenere con entusiasmo quelle che i coetus vorranno intraprendere – nel pieno rispetto verso i nostri Pastori, ma nel sereno esercizio della libertà che il diritto riconosce a tutti i battezzati – per affermare, difendere e diffondere, a vantaggio di tutta la Chiesa, la grandezza della sua millenaria tradizione liturgica e i ricchissimi doni spirituali nuovamente offerti a tutti i fedeli dal Motu Proprio Summorum Pontificum, nell’intatta e provvidenziale pienezza delle sue illuminate disposizioni.

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Una nuova sede per la Casa San Clemente dell’IBP in Roma

Schermata 2021-07-14 alle 21.12.21Nelle scorse settimane, l’Istituto del Buon Pastore ha annunciato l’imminente  trasferimento della propria sede romana – la ben nota Casa San Clemente (www.buonpastoreroma.it) – in un nuovo e più ampio appartamento, che meglio si adatta, come recita il dépliant diffuso per l’occasione dai sacerdoti dell’Istituto, «alla vita comune ed allo sviluppo del nostro apostolato»: un apostolato che «è discreto, umile e silenzioso: ci mettiamo a disposizione delle varie comunità e dei singoli fedeli a Roma e viaggiamo verso quei luoghi in Italia dove, in accordo con l’autorità ecclesiastica locale, si è formata l’esigenza della Santa Messa nella forma straordinaria (Ascoli Piceno, Tolentino, Dragoncello)».

Schermata 2021-07-14 alle 21.22.11Si tratta, come è facile comprendere, di un’iniziativa onerosa. «Nel nostro piccolo», proseguono i Sacerdoti romani dell’Istituto, «tutto questo è una grande opera ed i nostri mezzi sono veramente insufficienti ma contiamo sulla Divina Provvidenza, l’aiuto di San Giuseppe e soprattutto la vostra collaborazione e la vostra generosità. Non ci avete mai abbandonato e siamo sicuri che anche questa volta riusciremo a fare tutto il necessario per giungere alla migliore delle sistemazioni. Dal canto nostro, oltre alla nostra gratitudine, vi assicuriamo il ricordo nella preghiera e ci teniamo a disposizione per le esigenze spirituali di tutti voi: confessioni, messe, direzione spirituale e sacramenti!»

Mentre ci uniamo in preghiera ai bravi Sacerdoti dell’IBP – guidati, a Roma, da Don Giorgio Lenzi, Superiore della Casa e Procuratore Generale – invocando il buon esito del trasferimento nella nuova Casa San Clemente, segnaliamo che chi volesse fornire il proprio aiuto potrà indirizzarlo alla

Associazione AMICI DELL’ ISTITUTO DEL BUON PASTORE

IBAN : IT77 F035 8901 6000 1057 0748 444

BIC : BKRAITMM

PAY PAL: domussancticlementis@gmail.com.

cliccando qui si può scaricare il dépliant della Nuova Casa San Clemente

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IL SUMMORUM PONTIFICUM IN PERICOLO: UN APPELLO DEL CNSP

Senza nome

Roma, 3.11.2012 – S. messa Pontificale del I Pellegrinaggio Internazionale del Populus Summorum Pontificum

Cari Amici,

come tutti Voi, il Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum sta seguendo con crescente apprensione le voci, sempre più dettagliate, circa un imminente, pesante ridimensionamento delle disposizioni contenute nel Motu Proprio Summorum Pontificum, emanato il 7 luglio 2007 dal Sommo Pontefice Benedetto XVI, dal quale la nostra piccola organizzazione trae il suo stesso nome.

Non vogliamo riproporre qui il contenuto di quelli che, purtroppo, non possono più considerarsi semplici rumors, essendo ormai diventati quasi vere e proprie anticipazioni. Confidiamo, però, che vi sia ancora spazio perché la saggezza trionfi, e ciò che sembra profilarsi all’orizzonte non veda mai la luce.

Molti fra i nostri Amici ci chiedono se e che cosa sia possibile fare per prevenire o reagire a quanto pare imminente. E’ certamente prematuro proporre oggi specifiche iniziative, anche se è giusto esprimere sin d’ora tutta la determinazione del Populus Summorum Pontificum, in Italia e nel mondo intero, a difendere con ogni mezzo lecito e legittimo il Motu Proprio e, in particolare, i principi cardine che lo animano: la perenne validità del Messale tradizionale, numquam abrogatum, e la piena liberalizzazione del suo uso, secondo quanto diposto dall’art. 2 del Motu Proprio.

Ai nostri cari Amici, a quanti hanno la bontà di considerarci un utile sostegno nel loro apostolato liturgico, diciamo con chiarezza che il CNSP sarà con entusiasmo al loro fianco, in tutte le lecite e legittime iniziative che vorranno intraprendere – nel pieno rispetto verso i nostri Pastori, ma nel sereno esercizio della libertà che il diritto riconosce a tutti i battezzati – per affermare, difendere e diffondere, a vantaggio di tutta la Chiesa, la grandezza della sua millenaria tradizione liturgica e i ricchissimi doni spirituali nuovamente offerti a tutti i fedeli dalle provvidenziali disposizioni del Motu Proprio Summorum Pontificum.

Sin d’ora, poi, ci sentiamo pressati a rivolgere a tutti voi un vibrante 

APPELLO

Non vi è nessuna iniziativa, nessun  progetto umano, nessuna azione o manifestazione pubblica che, per quanto necessaria o addirittura indispensabile, possa avere la forza della preghiera e conseguirne i mirabili effetti. Non vi è nessun difensore, nessun avvocato, che possa assumere la nostra causa meglio e più efficacemente di Maria Santissima, Nostra Signora.

Per questo invitiamo con tutto il cuore i fedeli del Populus Summorum Pontificum d’Italia ad iniziare subito, oggi stesso, la recita individuale o collettiva del Santo Rosario con la specifica intenzione che le norme del Motu Proprio Summorum Pontificum mantengano la loro piena validità così come sono oggi formulate, e che nessuna modifica venga apportata loro, se non per rendere ancora più diffusa e disponibile alla santificazione dei fedeli la pia e devota celebrazione della liturgia tradizionale.

Non c’è dubbio che, affidandoci all’infallibile protezione della Madonna, qualunque cosa possa accadere, saremo con Lei vincitori e potremo superare ogni difficoltà.

 

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L’omelia di Mons. Agostini alla Messa per la Vita

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Sabato 22 maggio scorso si è tenuta con grande successo a Roma la X edizione della Marcia per La Vita, svoltasi, com’è noto, in forma “statica”, ma vivace e vitale come sempre, e forse addirittura caratterizzata da una partecipazione qualitativamente ed emotivamente più intensa del solito, ad onta dei  numeri forzatamente ridotti rispetto alle edizioni “marcianti”, ma comunque di tutto rispetto (la stampa ha parlato di oltre cinquemila partecipanti). Prima della manifestazione, il CNSP ha promosso l’ormai tradizionale S. Messa in  suffragio dell’anima di Mario Palmaro, celebrata anche quest’anno da Mons. Marco Agostini, che nuovamente ringraziamo di cuore per la Sua costante presenza ed amicizia, e del quale siamo lieti di pubblicare qui di seguito la bella omelia. Un cordiale ringraziamento anche al Parroco della magnifica chiesa di S. Maria in Portico in Campitelli, Don Davide Carbonaro O.M.D., per la sue generosa accoglienza; all’ICRSS, per il servizio liturgico validamente assicurato da due bravi seminaristi; e – last but not least – al Maestro Vicenzo Di Betta che ha magistralmente suonato lo splendido organo monumentale Rieger – Jagendorf.

Sabato Vigilia di Pentecoste 

X Marcia per la Vita 22 maggio 2021, Chiesa di Santa Maria in Campitelli 

Sia lodato Gesù Cristo! Celebriamo la Messa della Vigilia di Pentecoste in Santa Maria in Campitelli, santuario della Madre di Dio. In un sabato di maggio, anche noi nel Cenacolo con Maria e gli Apostoli, attendiamo lo Spirito Santo. Nell’imminenza della X edizione della Marcia per la Vita invochiamo dal Padre, il Divino Spirito fonte della vita, insieme alla Vergine che ha dato al mondo l’Autore della vita. Il nostro pensiero orante è anche per il caro Mario Palmaro, strenuo difensore della causa della vita, per lui offriamo in suffragio il Divin Sacrificio della Messa. Il santuario-parrocchia di Santa Maria in Campitelli si trova in uno dei luoghi più suggestivi di Roma, incastonato tra l’anfiteatro di Marcello e il monastero di Santa Francesca Romana, a pochi passi dai Fori Imperiali. Il santuario, poco conosciuto, è luogo di antica spiritualità, caro alla devozione del popolo romano. La veste barocca cela l’origine molto più antica della chiesa legata a un’immagine venerata in tempo di pestilenza. La sacra effige troneggia alta sull’altar maggiore, al centro della gloria dorata che rammenta la macchina berniniana di San Pietro. 

Secondo la tradizione, l’immagine apparve nel portico del palazzo di Santa Galla (situato dove oggi c’è l’anagrafe di Roma), una vedova romana che, all’indomani della morte del marito, decise di dedicarsi al servizio dei poveri. Il 17 luglio del 524 la vedova si trovava nel portico della sua casa, intenta a curare i malati di peste, quando in una grande luce rifulse la Madre di Dio. Piena di meraviglia Galla si recò nel Palazzo del Laterano dal Papa Giovanni I per raccontargli l’accaduto. Il Papa si recò sul luogo dove, nel frattempo, si era radunata molta gente. Giovanni I chiese al Signore il significato del prodigio. Apparvero, allora, due angeli che posero nelle mani del Papa il simulacro della Beata Vergine Maria con la quale il Papa benedisse la folla e la città di Roma, liberandola dal contagio. L’immagine miracolosa fu posta nell’Oratorio, detto di Santa Galla, vicino al Portico di Ottavia (da qui il titolo di Madonna del Portico). Poi, in quel luogo sorse la chiesa di Santa Maria in Portico affidata ai Chierici Regolari della Madre di Dio, meta di pellegrinaggi. In quest’area malsana, per il continuo via vai e per la sporcizia che s’accumulava, attecchivano le epidemie. Santa Maria del Portico divenne la protettrice della città dai pericoli delle epidemie. 

Nel 1618 il Cardinale Mellini, Vicario di Paolo V, affidò alla Congregazione dei Chierici Regolari, anche la custodia della Chiesa di Santa Maria in Campitelli, situata presso le case dei Serlupi nell’attuale Piazza Campitelli. I Chierici Regolari desideravano costruirvi, per esigenze di culto e di vita, la chiesa e un convento più decorosi, ma nulla si fece fino al 1656, quando, per sovraffollamento e sporcizia anche a Roma si diffuse la “peste nera”, male che provocò nell’intera penisola la morte di un milione di persone. Tale peste è uno degli avvenimenti più documentati del XVII secolo: la sacra immagine della Madonna del Portico ottenne anche quella volta la cessazione della peste. Dicono le cronache, che il Papa Alessandro VII nel 1662 “consentì al senato e popolo romano che si votasse di collocare con maggiore ornamento la miracolosa immagine di Santa Maria in Portico, oggetto della generale divozione, cui avevano ricorso nelle pestilenze più papi, massime Leone X e Adriano VI”. Ed “effettuato il voto nel dì della Concezione, lo eseguì poi con edificare la Chiesa di Santa Maria in Campitelli ove Alessandro VII solennemente trasportò la prodigiosa immagine, alla cui intercessione erasi attribuita la cessazione della peste” (MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro fino ai nostri giorni, pp. 231). La chiesa fu progettata da Carlo Rinaldi e Giovanni Antonio Rossi. 

Un altro miracolo è legato a Santa Maria in Campitelli e risale al I febbraio del 1703, quando i romani si rivolsero alla Madonna del Portico per chiedere che la città fosse risparmiata dal terremoto che interessò la regione. Il senato e il popolo romano stabilirono, con voto solenne, che la città avrebbe digiunato ogni I febbraio per cento anni e che i fedeli si sarebbero raccolti ogni anno qui per ricevere, in quella ricorrenza, la benedizione solenne. La città fu risparmiata.

La devozione alla Madre di Dio in questo santuario ha il suo fulcro nella venerazione dell’immagine di Maria Romanae Portus Securitatis, Maria Porto della Romana sicurezza. L’immagine attuale risale all’XI secolo, ed è una lamina di rame dorato con smalti blu, azzurri, rossi e verdi. I canoni dell’iconografia bizantina sono declinati in chiave romana: Maria è rappresentata come trono di Cristo e indica il Figlio benedicente da Lei tenuto in braccio, tra fronde di quercia in un cielo blu stellato, sotto un arco sormontato dai ritratti degli Apostoli Pietro e Paolo. Un’Odighitria, Colei che indica Colui che ha detto “Io sono la Via, la Verità e la Vita” rappresentato nelle fattezze di un bambino-adulto ricco, di giorni perché Dio incarnato. Nell’immagine, con la quale si benedice la città ogni anno, si condensa la forza protettrice dei celesti Patroni dell’Urbe: la Vergine Santissima e gli Apostoli Pietro e Paolo. Anche noi nel portico della loro Fede cerchiamo rifugio, soprattutto oggi. É consolante poter invocare Maria col titolo di “Porto della Romana sicurezza”. L’aggettivo Romana è suggestivo e fortemente evocativo, fa correre il nostro cuore e la nostra mente in molte direzioni. Ci piace intenderlo riferito alla città di Roma, ma anche a Santa Romana Chiesa e alla Romanità che in essa si custodisce ancorata sugli Apostoli Pietro e Paolo, colonne e fondamento della Fede, “Di quella Roma onde Cristo è romano” (Purg. XXXII 102).  

La Terza Persona della Santissima Trinità rinvigorisca nella Chiesa il coraggio di far risuonare limpida, chiara e forte la parola della Verità, confessandola, insegnandola, difendendola in modo intrepido. La volontà di combattere per la Fede e contro l’ingiustizia, sia in ogni membro; la difesa dei deboli, sia impegno di tutti; la tutela della vita umana, dal suo accendersi nel seno della madre fino al suo naturale spegnersi, sia premura instancabile di vescovi, sacerdoti e fedeli. Oggi vediamo moltiplicarsi parole e gesti ridondanti là dove dovrebbe regnare il silenzio, l’adorazione di Dio, l’umiltà e la preghiera, vale a dire nella Liturgia nella casa di Dio, e spegnersi la parola franca e coraggiosa e la testimonianza nella vita quotidiana, per le strade e nelle piazze: l’esatto opposto di quel che accadde agli Apostoli a Pentecoste. Che strana prassi è quella di parlare dove converrebbe tacere e di tacere dove si dovrebbe parlare, finendo sempre col discorrere di cose umane, e poco di Dio. C’è timidità, mancanza di parresia, abdicazione alla responsabilità diretta dell’evangelizzazione, debole presenza della Parola di Verità nell’agone pubblico, là dove invece occorrerebbe insegnare ai bambini e ricordare agli adulti smemorati che l’umanità, come uomo e come donna, reca l’immagine di Dio, là dove le creature andrebbero messe al riparo dal crimine dell’aborto. Una mancanza di spirito missionario, una paura che poco corrispondono al miracolo della Pentecoste. Chiediamo a Santa Maria Porto della Romana Sicurezza, d’intercedere presso il suo Divin Figlio l’invio abbondante dello Spirito Santo sulla Madre Chiesa perché, risanata dalla ogni sua malattia e paralisi, riprenda il proprio servizio di annuncio della Verità intera di Cristo all’umanità sfinita e stanca. In Maria Porto della Romana sicurezza, sotto il patrocinio dei SS. Apostoli Pietro e Paolo manteniamo l’unica via che conduce alla mèta: Cristo Gesù nostro Signore che vive e regna nei secoli dei secoli. Sia lodato Gesù Cristo! 

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Il CNSP riprende le proprie attività con la S. Messa per la Marcia per la Vita 2021

Slide1-8Cari Amici,

come avrete certamente notato, le vicende degli ultimi dodici mesi hanno costretto anche il CNSP ad un consistente rallentamento delle sue attività. Il sopravvento di problemi specifici del curatore di questo sito, del tutto indipendenti dalla situazione sanitaria generale, ha ulteriormente complicato la situazione.

Ora, grazie al Cielo, iniziamo a riconquistare la normalità dei nostri ritmi di lavoro, ed abbiamo intrapreso le attività necessarie per raggiungere i consueti standard di operatività – ben consapevoli di quanto essi siano, comunque, sempre ed ampiamente migliorabili!

Desideriamo dunque affidarci, in primissimo luogo, alle vostre preghiere affinché la ripresa delle nostre attività sia quanto più possibile efficiente ed efficace.

Come avrete forse notato, stiamo ultimando l’aggiornamento della mappa delle Ss. Messe in Italia; al termine di questa operazione, ormai pressoché completata, riapriremo l’agenda del CNSP, per ripristinarne integralmente il costante aggiornamento. Infine, ripartirà la trasmissione delle newsletter. Confidiamo, dunque, che vorrete considerare con comprensione l’inattività di questi ultimi, lunghi mesi, dalla quale intendiamo uscire con alcune iniziative – in parte per noi tradizionali, in parte nuove – delle quali vi daremo via via notizia.

La prima di queste iniziative è imminente: in occasione della Marcia per la Vita 2021 – che quest’anno avrà le particolari forme imposte, purtroppo, dalle perduranti disposizioni emergenziali: si veda qui per gli ultimi aggiornamenti sul programma – il CNSP promuove la celebrazione di una S. Messa che sarà offerta, prima dell’inizio della manifestazione, da Mons. Marco Agostini alle h. 9,30 di sabato 22 maggio presso la chiesa di Santa Maria in Portico in Campitelli, in Piazza di Campitelli, 9 (poco distante da Via dei Fori Imperiali, dove, all’altezza di Via San Pietro in Carcere/Piazza Venezia, si terrà la manifestazione). Le offerte raccolte in occasione della S. Messa saranno devolute all’Associazione San Giuseppe, costituita per provvedere al sostentamento economico della famiglia di Mario Palmaro dopo la sua prematura scomparsa.

Non vi nascondiamo che le ancora complicate circostanze attuali hanno reso particolarmente difficoltosa l’organizzazione della celebrazione, che, originariamente prevista altrove, è stata solo recentissimamente spostata nella splendida chiesa di S. Maria in Campitelli per seguire la nuova sede della Marcia per la Vita, anch’essa trasferita in via dei Fori Imperiali solo pochi giorni fa. Per questa ragione siamo stati in grado di dare notizia dell’evento solo così a ridosso del 22 maggio; ma siamo certi che nessuna difficoltà impedirà al populus Summorum  Pontificum d’Italia di elevare la sua preghiera a difesa, sempre ed ovunque, della sacralità della vita.

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SURREXIT CHRISTUS VERE, ALLELUIA!

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